Se il sottosuolo dell’edificio deve considerarsi di proprietà comune di tutti i condomini o di proprietà esclusiva del proprietario dell’unità più vicina al terreno, risultando del tutto legittima l’attività di escavazione da questi posta in essere
Se il sottosuolo dell’edificio deve considerarsi di proprietà comune di tutti i condomini o di proprietà esclusiva del proprietario dell’unità più vicina al terreno, risultando del tutto legittima l’attività di escavazione da questi posta in essere al di sotto dell’edificio.-
Condominio: il sottosuolo dell’edificio è di proprietà comune
Cassazione , sez. II civile, sentenza 09.03.2006 n° 5085 ( HYPERLINK "http://www.altalex.com/?idstr=85&idu=1374" Giuseppe Mommo)
Il principio generale dettato dall’articolo 840 c.c., secondo cui "la proprietà del suolo si estende al sottosuolo, con tutto ciò che vi si contiene, e il proprietario può fare qualsiasi escavazione od opera che non rechi danno al vicino", non può trovare applicazione in materia condominiale dove il limite ultimo del proprietario del piano più basso, è rappresentato dal sedime del fabbricato.
E' quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, con la sentenza 25 ottobre 2005 depositata il 9 marzo 2006 n. 5085 confermativa di un orientamento giurisprudenziale univoco e ormai consolidato in base al quale il suolo su cui sorge l’edificio, “se il contrario non risulta dal titolo”, deve considerarsi comune, per espressa previsione dell’articolo 1117 del Codice civile.
Tale previsione ha orientato la prevalente giurisprudenza nel senso che al proprietario esclusivo del piano più basso, ovunque collocato (interrato, seminterrato, al livello del piano di campagna) è impedito di effettuare, senza il consenso unanime di tutti i condomini, qualsiasi scavo o ampliamento per un maggiore godimento della sua unità immobiliare.
Secondo un indirizzo dei giudici (anche di merito) largamente maggioritario, qualsiasi opera sotto l’edificio andrebbe a ledere il diritto di comproprietà, in quanto priverebbe gli altri condomini dell'uso e del godimento, “anche soltanto potenziale” di una parte comune (sottosuolo dell’edificio ancorché non menzionato espressamente da detto art. 1117).
E’ stato pure chiarito che la superficie su cui l’edificio insiste (“suolo su cui sorge l’edificio” nella previsione del Codice) si considera l'area delimitata orizzontalmente dalle mura perimetrali sulla quale poggia il pavimento del piano più basso, sia che questo emerga rispetto al terreno circostante o sia invece interrato.
Nel caso di specie, era stata chiesta al tribunale la riduzione in pristino di un locale interrato adibito a cantina, che era stato modificato dalle proprietarie sia ampliando l’altezza del locale (mediante l'abbassamento del pavimento) che aumentando la superficie mediante la riduzione dello spessore di un muro maestro e la diminuzione della larghezza di un corridoio di accesso a una cantina appartenente alle attrici (nuda proprietaria e usufruttuaria).
Le convenute si difesero in primo grado sostenendo la piena legittimità del loro operato, tanto che i giudici di merito avevano in parte accolto le loro censure.
All'esito dell'istruzione della causa, con sentenza del 14 settembre 1998 il Tribunale di Pistoia accolse solo parzialmente la domanda, condannando le convenute a ripristinare il passaggio nel corridoio secondo la sua ampiezza originaria.
La decisione del tribunale, impugnata in via principale dalle proprietarie della cantina che avevano chiesto la completa riduzione in pristino e incidentalmente dalla proprietaria del locale ampliato (era intanto deceduta l’usufruttuaria), è stata integralmente confermata dalla Corte di Appello di Firenze, che con sentenza del 12 gennaio 2001 ha rigettato entrambi i gravami.
La Corte di appello ha confermato il rigetto della domanda di riduzione in pristino, nella parte concernente l'abbassamento del pavimento ritenendo che alla proprietà esclusiva appartenesse anche il suolo sottostante al livello di calpestio originario del locale.
In sostanza ha ritenuto lecito l'operato delle originarie convenute, per il fatto che il loro locale interrato fosse posto "tra le fondamenta" del fabbricato, il cui livello minimo non era stato superato, neppure in seguito all'abbassamento del pavimento.
Quanto all'ampliamento in senso orizzontale della cantina delle originarie convenute, effettuato mediante la riduzione dello spessore di un muro maestro, la Corte di Appello ha confermato il rigetto della domanda di riduzione in pristino, in quanto “ha ritenuto essersi trattato di un uso lecito, alla stregua del disposto dell'art. 1102 cod. civ., in quanto rispettoso sia della normale destinazione della cosa, sia della possibilità di un'altrui paritaria utilizzazione”.
Sul mancato accoglimento delle due domande di riduzione in pristino si fondano due dei tre motivi del ricorso (principale) per Cassazione (la proprietaria del locale ampliato si è costituita con controricorso, formulando a sua volta due motivi di impugnazione in via incidentale).
Con il primo motivo del ricorso, è stata denunciata "insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia" e "mancata e/o errata applicazione artt. 840, 1102 e 1117 del codice civile", per avere la Corte di appello erroneamente e ingiustificatamente ritenuto di proprietà esclusiva il suolo sottostante al livello di calpestio originario del locale.
La doglianza è stata ritenuta fondata dalla Cassazione perché il principio sancito dall'art. 840 cod. civ., secondo cui "la proprietà del suolo si estende al sottosuolo, con tutto ciò che vi si contiene, e il proprietario può fare qualsiasi escavazione od opera che non rechi danno al vicino", non è applicabile nei condomini, poiché "il suolo su cui sorge l'edificio", per il disposto dell'art. 1117 cod. civ., è "oggetto di proprietà comune dei proprietari dei diversi piani o porzioni di piani".
Dai giudici di legittimità, viene precisato che “il sedime del fabbricato costituisce dunque il limite ultimo delle proprietà individuali, le quali non si espandono usque ad infera, neppure se sono ubicate nel piano più basso (o in una sua porzione)”.
Quanto alla locuzione "suolo su cui sorge l'edificio", i giudici ricordano che è stato già precisato dalla giurisprudenza di legittimità come debba interpretarsi tale previsione.
Deve intendersi “nel senso che si tratta della superficie su cui insiste immediatamente la parte infima dello stabile, ossia l'area, delimitata orizzontalmente dalle proiezioni delle mura perimetrali, sulla quale poggia il pavimento del piano più basso, sia che questo emerga in tutto o in parte dal terreno circostante, sia che si trovi più in profondità, in modo da risultare completamente interrato, sicché in ogni caso non è consentito al proprietario di quel piano (o di una sua porzione) estendere verticalmente il suo dominio, appropriandosi il corrispondente sottosuolo, il quale costituisce anch'esso una delle "parti comuni dell'edificio".
Quindi, viene fatto osservare che, la Corte di merito, pur avendo richiamato questi principi non vi si è attenuta, “ma ne ha frainteso la portata, ritenendo lecito l'operato delle originarie convenute, per il fatto che il loro locale interrato è posto "tra le fondamenta" del fabbricato, il cui livello minimo non è stato superato, neppure in seguito all'abbassamento del pavimento”.
Con questa ultima decisione viene pure chiarito, dai giudici di legittimità, che in realtà il riferimento alle fondazioni cui hanno fatto riferimento alcune delle sentenze pronunciate dalla Cassazione nella materia di cui si tratta, era inteso soltanto per affermare che il "suolo su cui sorge l'edificio" non si identifica con il "piano di campagna", se questo è stato scavato per ricavare uno o più piani sotterranei, i quali ben possono appartenere ai singoli, anziché avere natura condominiale.
Ciò, tuttavia, non esclude che “le proprietà individuali restano delimitate verticalmente dalla superficie di appoggio del più basso dei piani dell'edificio, anche quando le fondazioni (intese sia come il prolungamento nel terreno dei muri maestri perimetrali e interni, o dei pilastri portanti, sia come la platea orizzontale che eventualmente collega tali strutture) arrivano ancora più in profondità: corrispondentemente al linguaggio comune e tecnico, l'art. 1117 cod. civ. indica il "suolo" e le "fondazioni" come precise e ben distinte parti dell'edificio, sicché è arbitrario far coincidere necessariamente il limite inferiore dell'uno con quello che raggiungono le altre”.
Nelle ipotesi come quella in considerazione, secondo la Cassazione, non si può considerare, come ha fatto la Corte di appello, che ogni diritto reale è proporzionato all'utilità che il titolare può trame, nel senso che questa sussiste per i singoli proprietari del piano più basso, e non per il condominio.
In materia condominiale, “la delimitazione dei loro rispettivi diritti è stabilita dalla legge - che include tra le "parti comuni" il "suolo su cui sorge l'edificio", inteso nel senso che si è detto, con inclusione del relativo sottosuolo - sicché non è consentito all'interprete sostituirla con una propria e diversa”.
Con il secondo motivo del ricorso è stata fatta valere "omessa e/o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia" e di "mancata e/o erronea applicazione artt. 1102 e 1117 del codice civile", per avere la Corte di appello confermato il rigetto della domanda di riduzione in pristino, anche relativamente all'ampliamento in senso orizzontale della cantina, effettuato mediante la riduzione dello spessore di un muro maestro.
Secondo la ricorrente, la Corte di merito avrebbe dovuto considerare la riduzione del muro come un impiego illegittimo di un bene comune, quando invece ha ritenuto essersi trattato di un “uso lecito, alla stregua del disposto dell'art. 1102 cod. civ., in quanto rispettoso sia della normale destinazione della cosa, sia della possibilità di un’altrui paritaria utilizzazione”.
Nell’accogliere la censura, la Cassazione ha precisato che “dall'ambito delle attività consentite dalla norma citata vanno senz'altro escluse quelle che si risolvono nell'attrazione di un bene comune o di una sua parte nella sfera di disponibilità esclusiva di un singolo (v., per tutte, Cass. 14 ottobre 1998 n. 10175), come appunto avviene quando si diminuisce la consistenza originaria di un muro maestro e si ingloba il volume vuoto così ottenuto in una porzione immobiliare di proprietà individuale: di quello spazio, in tal modo, viene sia alterata la destinazione, sia impedito un paritario uso da parte degli altri condomini, i quali non vi hanno accesso”.
Cosa diversa è l'inserimento di condutture o l'apertura di varchi nei muri maestri, ed altri “impieghi che consentono di ricavare da cose comuni una particolare utilità aggiuntiva, ma risultano compatibili sia con la destinazione del bene, sia con la possibilità di future analoghe utilizzazioni altrui”, cui si riferiscono i precedenti giurisprudenziali (richiamati nella sentenza impugnata).
Per la Cassazione, la riduzione del muro maestro (come pure l’escavazione) per ampliare un locale non può considerarsi alla stregua delle altre utilizzazioni lecite di cui all’articolo 1102 c.c..
C’è da considerare, per citare il più recente precedente perfettamente conforme alla decisione in commento, che anche in applicazione del principio di cui all’articolo 1102 c.c., oltre che per il combinato disposto degli artt. 840 e 1117 c.c., la Corte aveva considerato lesivo del diritto di comproprietà l'opera di escavazione eseguita in profondità nel sottosuolo, per rendere più alto un locale di proprietà esclusiva.
Infatti, nel 2004 aveva stabilito che “le limitazioni poste dall'art. 1102 c.c. al diritto di ciascun partecipante alla comunione di servirsi della cosa comune, rappresentate dal divieto di alterare la destinazione della cosa stessa e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, vanno riguardate in concreto, cioè con riferimento alla effettiva utilizzazione che il condomino intende farne e alle modalità di tale utilizzazione, essendo, in ogni caso, vietato al singolo condomino di attrarre la cosa comune o una parte di essa nell'orbita della propria disponibilità esclusiva e di sottrarla in tal modo alla possibilità di godimento degli altri condomini”. (Cass. civ. Sez. II, 28-04-2004, n. 8119)
L’altra massima tratta dalla stessa decisione è quella consueta: “per il combinato disposto degli artt. 840 e 1117 c.c. lo spazio sottostante al suolo su cui sorge un edificio in condominio, in mancanza di titolo che ne attribuisca la proprietà esclusiva ad uno dei condomini, deve considerarsi di proprietà comune, indipendentemente dalla sua destinazione. Ne deriva che il condomino non può, senza il consenso degli altri, procedere ad escavazioni in profondità del sottosuolo per ricavarne nuovi locali ad ingrandire quelli preesistenti, comportando tale attività l'assoggettamento di un bene comune a vantaggio del singolo”.
Per completezza di informazione si può indicare l’esistenza di una decisione di legittimità, sebbene più risalente, di indirizzo non perfettamente conforme a quello del divieto di “qualsiasi opera” .
Infatti, la stessa Cassazione nel 1999 si era pronunciata nel senso che “l'escavazione del sottosuolo c...
... continua