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L’OGGETTO DELL’APPELLO ED IL REQUISITO DELLA SPECIFICITA’ DEI MOTIVI.-
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CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
UFFICIO DEL MASSIMARIO E DEL RUOLO



Relazione tematica: L’OGGETTO DELL’APPELLO ED IL REQUISITO DELLA SPECIFICITA’ DEI MOTIVI


Rel. 111 Roma, 18 settembre 2006

Oggetto: IMPUGNAZIONI CIVILI – APPELLO – DOMANDE – EFFETTO DEVOLUTIVO – Funzione e delimitazione.

IMPUGNAZIONI CIVILI – APPELLO – CITAZIONE IN APPELLO – MOTIVI – SPECIFICITA’ – Definizione - Inosservanza – Conseguenze.



SOMMARIO:
1.- Brevi profili introduttivi sull’appello.
2.- La ricostruzione della natura giuridica dell’appello e l’individuazione del suo oggetto: la posizione della giurisprudenza e la sua contrapposizione alla dottrina prevalente.
3.- Il requisito della specificità dei motivi dell’atto di appello e le relative conseguenze derivanti dalla sua inosservanza: l’evoluzione giurisprudenziale e le variegate elaborazioni dottrinali.
4.- Conclusioni.


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1.- Brevi profili introduttivi sull’appello.

Nella sistematica del regime delle impugnazioni prefigurata dall’attuale codice di rito civile l’appello si qualifica come il primo e più ampio mezzo appartenente alla categoria delle impugnazioni ordinarie e ad esso è assegnata la funzione di assicurare – quantomeno tendenzialmente – la garanzia piena della tutela delle posizioni soggettive delle parti, mediante l’attuazione del principio del “doppio grado di giudizio”. In sostanza, l’appello è inquadrato dall’ordinamento come il mezzo ordinario di impugnazione avverso la sentenza di primo grado, diretto, nella sua funzione essenziale, a provocare un riesame della causa nel merito, non limitato necessariamente al controllo di vizi specifici. La sua principale caratteristica è costituita dal c.d. “effetto devolutivo” (secondo il noto principio del tantum devolutum quantum appellatum) che si realizza nel passaggio della cognizione della causa dal giudice di primo grado al giudice superiore, ancorché nei limiti del gravame o dei gravami proposti dalle parti.
L’individuazione dell’ambito dell’appello è da ritenersi incisivamente condizionata – nella ricostruzione della struttura funzionale che si è voluta conferire a questo mezzo di impugnazione nella disciplina codicistica attuale, come ridisegnata dalla legge novellatrice n. 353 del 26 novembre 1990 (in relazione, soprattutto, al nuovo disposto dell’art. 345 cod. proc. civ.) – dalla scelta legislativa di aver voluto prevedere il radicale divieto non solo di nuove domande, ma anche di nuove eccezioni, oltre a sancire l’ammissibilità molto limitata di nuovi mezzi di prova, ragion per cui – in relazione alla nota contrapposizione che si rinviene nel dibattito dottrinale storicamente sviluppatosi - non si prospetta audace la tendenza a privilegiare la ricostruzione della funzione del mezzo di impugnazione in questione non come novum iudicium ma come revisio prioris instantiae, definizione quest’ultima che è stata, peraltro, fatta propria dalla giurisprudenza, anche nella sua più recente elaborazione, tanto da potersi ritenere come dato ormai in essa consolidato.
In raffronto alla disciplina precedente, con la novella del 1990, all’appello non è più riconducibile l’effetto sospensivo (automatico) dell’esecuzione della sentenza impugnata, il quale, cioè, non consegue alla pendenza del termine per l’appello né alla sua proposizione, ma può derivare soltanto da un provvedimento dello stesso giudice di appello nella sussistenza delle condizioni previste nell’art. 283 cod. proc. civ. e nel rispetto del procedimento enucleato nel successivo art. 351. Anche la stessa complessiva struttura procedimentale del giudizio di appello risulta sensibilmente modificata per effetto dell’anzidetta novella, poiché, accanto alla previsione della fase introduttiva modellata sulla falsariga di quella stabilita per il giudizio di primo grado e alla rinnovata disciplina dell’appello incidentale, risalta soprattutto l’eliminazione della figura dell’istruttore con la conseguente evidenziazione della rigorosa collegialità di questo grado di giudizio, salvo che, a seguito della riforma ordinamentale indotta dal decreto legislativo n. 51 del 1998 (istitutivo del c.d. “giudice unico in primo grado”), per le ipotesi dell’attribuzione al tribunale in composizione monocratica dell’appello avverso le sentenze del giudice di pace.
La dottrina ha, perciò, sottolineato che, con riferimento ai postulati dell’oralità (nella tradizione teorica considerata dal legislatore del 1990), permangono, in questo grado di giudizio, i connotati dell’identità del giudice per tutto il corso del processo e, almeno tendenzialmente, della concentrazione dell’evoluzione processuale; può mancare (e, nella prassi processuale, manca quasi sempre), tuttavia, il contatto immediato tra il giudice e le parti (in ragione della facoltatività della comparizione personale delle stesse e della discrezionalità rimessa allo stesso giudice di ordinarne l’audizione, in dipendenza di un’effettiva opportunità in proposito) e difetta – almeno in via ordinaria (e facendo salve le eventualità eccezionali dell’ammissione di nuovi mezzi istruttori) – il rapporto diretto tra il giudice e la prova.
La conseguenza che ne discende è che, nel giudizio di appello ordinario (come, del resto, nel processo del lavoro), nel nuovo quadro normativo, risulta particolarmente accentuato il carattere (già essenzialmente presente nel regime anteriore alla riforma del 1990) della funzione di mero controllo sul giudizio di primo grado, che viene a svolgersi essenzialmente “sulle carte” e senza una nuova istruttoria, ancorché questo controllo sia destinato comunque a condurre ad una nuova pronuncia, che prende il posto di quella impugnata: l’appello, perciò, continua a conservare il suo effetto sostitutivo della decisione di primo grado, restando eccezionali le ipotesi (di cui agli artt. 353 e 354 cod. proc .civ.) – invero qualificate come tassative dalla giurisprudenza e rispondenti all’esigenza di garantire il basilare principio del “doppio grado di giudizio” – di rimessione della causa al giudice di prima istanza.

2.- La ricostruzione della natura giuridica dell’appello e l’individuazione del suo oggetto: la posizione della giurisprudenza e la sua contrapposizione alla dottrina prevalente.

Proseguendo nell’analisi conseguente alla riportata premessa introduttiva, bisogna evidenziare che – secondo gli orientamenti scientifici prevalenti contrari all’inquadramento dell’appello come revisio prioris instantiae – in relazione alla natura di gravame che caratterizza l’appello, ed in dipendenza del fatto che esso introduce un riesame non della sentenza di primo grado, ma (pur se nei limiti della domanda di appello) della stessa controversia già conosciuta in primo grado, l’oggetto del giudizio di appello sarebbe, ancorché nell’ambito dei contorni delimitati dall’atto di impugnazione, quello stesso dell’intera causa già decisa in primo grado ed in tali termini dovrebbe essere inquadrato l’effetto devolutivo dell’appello. In particolare, è stato affermato che l’appello – specie quello per motivi di merito – continua ad essere, malgrado le sue sopravvenute evoluzioni, espressione dello schema teorico del gravame e non degli atti di impugnazione, onde l’oggetto del relativo giudizio si identifica con il rapporto controverso in primo grado devoluto al giudice superiore attraverso i motivi specifici (imposti dall’art. 342 cod. proc. civ.), i quali non sono (rectius: non sarebbero) l’oggetto di questo giudizio, ma solo il mezzo mediante il quale si individuano le parti del rapporto sostanziale controverso in primo grado devolute al giudice superiore, nonché le questioni (in fatto e in diritto) attraverso il cui riesame il giudice di appello potrà e dovrà conoscere ex novo del rapporto sostanziale.
Tuttavia, per contro, si osserva – da parte di altri indirizzi teorici, in tendenziale sintonia con la giurisprudenza uniforme - che, pur volendo concepirsi l’appello come un gravame sostitutivo, l’oggetto del cui giudizio sarebbe non la sentenza impugnata ma la situazione sostanziale oggetto del processo, è, tuttavia, indiscutibile che il rapporto giuridico sostanziale, che si voglia identificare come l’oggetto principale dell’appello, entra nel secondo giudizio attraverso il filtro della pronuncia di primo grado, la quale non può essere considerata tamquam non esset. Ed è per questo che il giudice di appello non può concentrarsi direttamente sulla concreta situazione sostanziale ma deve avere come necessario parametro di riferimento la sentenza impugnata e ciò in dipendenza dello svolgimento della “funzione stessa dell’impugnazione che è pensata soprattutto per un progressivo affinamento della decisione”: questa impostazione – ad avviso degli orientamenti scientifici sostanzialmente conformi all’indirizzo della giurisprudenza – si armonizza, del resto, con il ruolo centrale che il giudizio di primo grado svolge nell’attuale sistema processuale che ha voluto, invece, demandare all’appello una funzione di controllo che altrimenti andrebbe dispersa.
Secondo un attento ed analitico settore della dottrina il giudizio di appello deve, perciò, essere descritto in termini di revisio prioris instantiae (anziché di novum iudicium), dal momento che in esso la cognizione del giudice resta circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante (o dall’appellato in qualità di appellante incidentale) attraverso la prospettazione – e, quindi, la deduzione – di specifiche censure, senza che al giudice di secondo grado possa ritenersi assegnato il compito di “ripetere” il giudizio di primo grado, rinnovando la cognizione dell’intero materiale di causa e pervenendo ad una nuova decisione che involga “tutti” i punti già dibattuti in prima istanza. In altri termini, l’appello è strutturato come un mezzo di impugnazione a critica sì libera (poiché non è individuata nell’ordinamento una predeterminazione legislativa delle “tipologie” di censure ammesse avverso la sentenza di primo grado), ma comunque a cognizione vincolata dagli specifici motivi di impugnazione avanzati, poiché la libertà di critica si “concretizza”, al momento della proposizione dell’appello, nelle doglianze espressamente svolte, che delimitano le possibilità cognitorie e decisorie nel processo di seconda istanza, il cui esito persegue, in ogni caso, un effetto sostitutivo della pronuncia gravata. La richiamata cognizione limitata va, dunque, intesa nel senso che il giudice di secondo grado non può condurre il suo esame su punti definiti in prima istanza e non oggetto di censura (e, perciò, idonei a passare in giudicato). In quest’ottica, la stessa dottrina afferma che il giudizio di impugnazione in generale – e quello d’appello, in particolare – ha un duplice oggetto: un “oggetto diretto”, coincidente con la sentenza impugnata, di cui si chiede (comunque) l’eliminazione, ed un “oggetto indiretto” che si riconduce alla situazione giuridica sostanziale, in ordine alla quale si chiede la dichiarazione (della produzione) di un effetto giuridico diverso da quello determinato dalla sentenza impugnata.
Nell’inquadramento conseguente alla sua nuova conformazione assunta in seguito alla riforma del 1990 (che ha previsto anche la sostanziale soppressione del possibile ius novorum, limitato, ai sensi del novellato art. 345 cod. proc. civ., alle eccezioni rilevabili anche d’ufficio ed ai mezzi di prova indispensabili per la decisione, o che la parte non abbia potuto proporre in primo grado per causa ad essa non imputabile, nonché al giuramento decisorio), appare sotteso che il legislatore abbia voluto impedire che il giudizio di appello si risolva in una sorta di valvola di sicurezza per le parti sprovvedute o negligenti, alle quali, perciò, bisognava precludere l’espletamento di tutte le difese che non hanno saputo o potuto esprimere in prime cure. D’altra parte, occorre considerare e valorizzare che la soluzione prescelta dal legislatore del 1990 appare perfettamente in linea con quella, già da tempo (fin dal 1973, con l’entrata in vigore della legge n. 533), adottata per il rito del lavoro (cfr. l’art. 437 cod. proc. civ.).
In effetti, dunque, mediante il complesso delle innovazioni introdotte dalla legge novellatrice n. 353 del 1990, il giudizio di appello si profila attualmente strutturato come un mezzo per ovviare ad errori del giudicante in prima istanza, più che ad imperizie o negligenze dei contendenti, ragion per cui tale mezzo è venuto ad assumere i caratteri di una revisio prioris instantiae, ossia di un’impugnativa avverso la sentenza, piuttosto che di rimedio introduttivo di un giudizio sul rapporto controverso.
D’altro canto si conformavano in questo modo sia la struttura che la funzione derivanti dall’originaria formulazione del codice di rito anteriormente alla novella del 1950. Invero, il legislatore del 1940 aveva prefigurato l’appello come un’impugnazione “limitata”, ovvero come un mezzo diretto esclusivamente ad elidere eventuali errori o vizi della sentenza gravata, con la correlata previsione che le nuove eccezioni ed i nuovi mezzi di prova potessero avere ingresso nel secondo giudizio soltanto per “gravi motivi accertati dal giudice”.
Viceversa, la legge 14 luglio 1950, n. 581, ebbe ad introdurre lo ius novorum (in conformità alla corrispondente abolizione, per il primo grado, della limitazione della facoltà di proporre nuove eccezioni, produrre nuovi documenti e chiedere nuove prove, dopo la prima udienza di trattazione), riconoscendo, pertanto, al giudice di appello una cognizione “piena”, non dissimile da quella del giudice di prima istanza, tanto da consentirgli – nei limiti delle domande avanzate in primo grado – di accogliere ed utilizzare anche l’eventuale nuovo materiale di cognizione apportato.
La novella del 1990 ha, tuttavia, ripristinato l’originaria conformazione del giudizio di appello, in coerenza con il regime delle preclusioni imposte all’attività difensiva delle parti in primo grado (come, oltretutto, confermato anche in virtù delle modifiche del 1995 e del più recente intervento normativo incidente sull’art. 183 cod. proc. civ., come riformulato per effetto degli ultimi interventi normativi del 2005 e 2006) ed alla maggiore e più attiva partecipazione del giudice alla formazione della materia del contendere, voluta dal legislatore.
Nell’evidenziata evoluzione del giudizio di appello indotta dai riportati passaggi normativi è, pertanto, intravedibile una indubbia tendenza – recepita dalla costante giurisprudenza - della sua struttura ad essere qualificata come revisio prioris instantiae, accentuata dalla non automaticità dell’effetto devolutivo (siccome condizionato dalla specificità dei motivi che devono sorreggere l’atto di appello), dalle limitazioni all’effetto sostitutivo e dall’utilizzazione dell’appello medesimo come mezzo per far valere le nullità del procedimento e della sentenza di primo grado (alla stregua del disposto di cui all’art. 161 cod. proc. civ.).

3.- Il requisito della specificità dei motivi dell’atto di appello e le relative conseguenze derivanti dalla sua inosservanza: l’evoluzione giurisprudenziale e le variegate elaborazioni dottrinali.

Strettamente connesso alla questione della ricostruzione della natura giuridica dell’appello e, soprattutto, dell’individuazione del suo oggetto, si presenta il problema riconducibile all’imposizione, a carico dell’appellante (principale od incidentale che esso sia) dell’onere – desumibile dal disposto di cui all’art. 342, comma primo, cod. proc. civ. - di supportare la proposizione del relativo atto di appello (che, con riferimento al giudizio ordinario di cognizione, assume la forma della citazione, diversamente dal rito del lavoro, ove deve rivestire la forma del ricorso) con la deduzione dei “motivi specifici” dell’impugnazione (non richiesti, invece, nel codice del 1865), che si devono accompagnare all’esposizione sommaria dei fatti di causa nonché alle indicazioni prescritte nell’art. 163 del codice di rito.
Sono stati molto dibattuti, in dottrina e in giurisprudenza, gli aspetti relativi all’individuazione del nucleo essenziale idoneo a consentire il raggiungimento del livello di specificità dei motivi dell’appello e delle conseguenze derivanti dalla violazione di questo onere sul piano processuale, in mancanza di un’esplicita previsione di qualsiasi conseguenza sanzionatoria in merito.
Per contro, si prospetta piuttosto univoca, sul versante teorico, la funzione a cui è demandata l’assolvimento di questo onere per l’appellante. In proposito, si osserva che l’atto di appello delimita, ex parte dell’appellante, l’ambito della cognizione del giudice del gravame, rispetto a quello del giudice di primo grado: sia perché – ai sensi dell’art. 329, comma secondo, cod. proc. civ. – “l’impugnazione parziale importa acquiescenza alle parti della sentenza non impugnate”, sia perché “le domande e le eccezioni non accolte” – secondo l‘opinione ravvisata come preferibile dalla predominante dottrina, in quanto assorbite dall’accoglimento di domande od eccezioni con esse incompatibili – “nella sentenza di primo grado, che non sono espressamente riproposte in appello, si intendono rinunciate” (art. 346 cod. proc. civ.). Orbene, se queste sono le conseguenze implicate dall’appello parziale e dall’omessa riproposizione di precedenti domande, i motivi specifici concorrono ad adempiere a questa duplice funzione impeditiva e, perciò, soprattutto ad evitare la formazione del giudicato interno, per acquiescenza parziale, sulle singole parti della sentenza in senso tecnico: l’indicazione dei motivi secondo un sufficiente grado di specificità rappresenta, perciò, una condizione di efficacia del potere di impugnazione.
Ritornando al problema della determinazione del concetto di “motivi specifici”, la correlazione degli stessi con il provvedimento impugnato induce a sottolineare che la loro indicazione, più che perseguire finalità meramente giustificative delle censure mosse, vale piuttosto ad individuare un requisito essenziale dell’atto di appello, consistente nell’esatta determinazione della materia del contendere del giudizio di impugnazione. In altri termini, la specifica esposizione dei motivi assolve alla fondamentale funzione di individuare l’ambito e i limiti dell’effetto devolutivo – in conformità del famoso brocardo del tantum devolutum quantum appellatum – poiché, come già anticipato, attraverso l’indicazione delle parti della sentenza oggetto della domanda di appello viene, conseguentemente, individuata la parte della contesa rimessa al giudice di secondo grado. L’effetto devolutivo, pertanto, implica che, anche in ipotesi di impugnazione della sentenza nel suo complesso, è necessario precisare – in ordine a tutti i capi della decisione gravata – le ragioni delle doglianze avanzate, in connessione con i presunti errori commessi dal giudicante.
La prescrizione di specificità appare, dunque strettamente correlata all’assolvimento della funzione del motivo, che intanto può raggiungere il suo scopo in quanto sia formulato in termini specifici tali da permettere l’esatta individuazione dell’error o, comunque, della violazione che si assume viziare la sentenza.
La giurisprudenza, nel corso della sua evoluzione, è pervenuta – proprio rimarcando l’essenzialità di questo requisito e le conseguenze che dalla sua omissione o carenza derivano (di cui si discorrerà in seguito) – alla conclusione che il motivo può definirsi specifico – e qualificarsi, perciò, tale – quando alle argomentazioni svolte nella sentenza vengano contrapposte quelle dell’impugnante volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime. Così inquadrato, tale criterio viene ritenuto soddisfatto dalla giurisprudenza – nel senso che l’argomentazione svolta nell’impugnazione incrina il fondamento logico-giuridico dell’argomentazione contenuta nella motivazione della sentenza impugnata – quando, in base ad un giudizio ex ante, l’eventuale fondatezza dell’argomentazione priverebbe di base logica la sentenza impugnata.
Risulta, a questo punto, del tutto opportuno riportare un rapido excursus delle principali massime della giurisprudenza di legittimità sviluppatasi sull’argomento:
- ai fini della validità dell’appello non è sufficiente che l’atto di gravame consenta di individuare le statuizioni concretamente impugnate e i limiti dell’impugnazione, ma è altresì necessario, pur quando la sentenza di primo grado sia stata censurata nella sua interezza, che le ragioni sulle quali si fonda il gravame siano esposte con sufficiente grado di specificità, da correlare, peraltro, con la motivazione della sentenza impugnata, con la conseguenza che, se da un lato, il grado di specificità dei motivi non può essere stabilito in via generale ed assoluta, dall’altro lato, esso esige pur sempre che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime (Cass., sezioni unite, 20 settembre 1993, n. 9628);
- la cognizione del giudice nel giudizio di appello – che non è “novum iudicium” con effetto devolutivo generale – resta circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante attraverso l’enunciazione di specifici motivi; la specificità dei motivi esige che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni della sentenza separabili dalle argomentazioni che le sorreggono, di modo che alla parte volitiva dell’appello deve sempre accompagnarsi una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice (Cass., sez. I, 30 maggio 1995, n. 6066);
- nell’atto di appello alla parte volitiva deve sempre accompagnarsi una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, onde non è sufficiente che l’appello individui le statuizioni concretamente impugnate, ma è necessario pur quando la sentenza impugnata sia stata censurata nella sua interezza, che le ragioni sulle quali si fonda il gravame siano esposte con sufficiente grado di specificità, da correlare pertanto con la motivazione della sentenza impugnata (Cass., sez. III, 15 aprile 1998, n. 3805; nello stesso senso, v. Cass., sez. III, 26 giugno 1998, n. 6335);
- l’onere della specificazione dei motivi d’appello ai sensi dell’art. 342 cod. proc. civ. ha la duplice funzione di delimitare l’ambito della cognizione del giudice d’appello e di consentire il puntuale esame delle critiche mosse alla sentenza impugnata, ed è assolto solo se l’atto di appello contiene articolate ragioni di doglianza su punti specifici della sentenza di primo grado; pertanto, e poiché il giudizio di appello ha natura di “revisio prioris instantiae” alla stregua dei motivi di gravame e non consente la mera richiesta di un “iudicium novum”, non è sufficiente, in relazione ad un autonomo capo della sentenza, il generico rinvio alle difese svolte in primo grado (Cass., sez. I, 24 settembre 1999, n. 10493);
- nel giudizio di appello, che ha natura di “revisio prioris instantiae”, la cognizione del giudice resta circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante attraverso specifici motivi con necessità di esposizione delle argomentazioni svolte in contrapposizione con quelle contenute nella sentenza impugnata; ne deriva che il requisito della specificità dei motivi di appello, pur non richiedendo l’impiego di formule sacramentali, esige un’esposizione chiara ed univoca delle doglianze e delle domande rivolte al giudice del gravame (Cass., sez. II, 27 luglio 2000, n. 9867);
- il requisito della specificità dei motivi dell’appello postula che alle argomentazioni della sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante finalizzante ad inficiare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza scindibili dalle argomentazioni che la sorreggono; è, quindi, indispensabile che l’atto di appello contenga sempre tutte le argomentazioni volte a confutare le ragioni poste dal primo giudice a fondamento della propria decisione senza la possibilità di rinviare l’esposizione delle argomentazioni ad un momento successivo del giudizio o addirittura alla comparsa conclusionale, essendo l’atto di appello quello che fissa i limiti della controversia in sede di gravame ed esaurisce il diritto potestativo dell’impugnazione…(Cass., sez. II, 30 luglio 2001, n. 10401);
- la disposizione dell’art. 342 cod. proc. civ., che richiede la specificità dei motivi di appello, implica solo la necessità che la manifestazione volitiva dell’appellante consenta di individuare con chiarezza le statuizioni investite dal gravame e le specifiche critiche indirizzate alla motivazione che le sostiene e non anche che siano adoperate formule o seguiti schemi particolari nella esposizione dei motivi e delle domande dell’atto di appello, che è affidata alla capacità espressiva del difensore (Cass., sez. III, 19 maggio 2003, n. 7769);
- con i motivi di appello, la parte deve rivolgere alla sentenza impugnata censure puntuali e specifiche, al cui esame resta delimitato l’ambito della cognizione in sede di gravame, senza possibilità di ampliamenti successivi, e ciò anche nel caso in cui la sentenza di primo grado sia stata censurata nella sua interezza, essendo onere dell’appellante contrapporre le proprie argomentazioni a quelle svolte nella sentenza al fine di incrinare il fondamento logico-giuridico di queste… (Cass., sez. lav., 21 gennaio 2004, n. 967);
- l’art. 342 cod. proc. civ., nella parte in cui prescrive la specificità dei motivi dell’appello, comporta altresì, laddove tali motivi siano argomentati mediante il richiamo alla documentazione prodotta, l’indicazione puntuale e non generica dei documenti ai quali è affidato il gravame, con la compiuta illustrazione delle ragioni, illegittimamente trascurate dal primo giudice, per le quali il contenuto di essi giustifica la tesi sostenuta dall’appellante (Cass., sez. I, 20 ottobre 2005, n. 20287);
- l’onere di specificazione dei motivi di appello previsto dall’art. 342 cod. proc. civ. assolve alla duplice funzione sia di delimitare l’ambito di esame concesso al giudice di secondo grado, in conformità del principio “tantum devolutum quantum appellatum”, sia di consentire la puntuale e ragionata valutazione delle critiche mosse alla decisione impugnata; pertanto, tale onere può ritenersi soddisfatto solo quando l’atto di appello esprime articolate ragioni di doglianza su punti specifici della sentenza di primo grado, non essendo, perciò, sufficiente il generico rinvio alle difese svolte in primo grado (Cass., sez. III, 16 dicembre 2005, n. 27727);
- in tema di processo di appello, in ossequio al principio del “tantum devolutum quantum appellatum di cui all’art. 342 cod. proc. civ., il quale importa non solo la delimitazione del campo del riesame della sentenza impugnata ma anche l’identificazione, attraverso il contenuto e la portata delle censure, dei punti investiti dall’impugnazione e delle ragioni per le quali si invoca la riforma delle decisioni, i motivi debbono essere tutti specificati nell’atto di appello (con cui si consuma il diritto di impugnazione), sicché restano precluse nel corso dell’ulteriore attività processuale sia la precisazione di censure esposte nell’atto di appello in modo generico, che la possibilità di ampliamenti successivi delle censure originariamente dedotte (Cass., sez. III, 24 marzo 2006, n. 6630).
Alla luce dei complessivi principi che si desumono dalle richiamate statuizioni giurisprudenziali si evince chiaramente che i motivi di appello, per poter essere considerati specifici, devono tradursi in precise contestazioni incentrate sulle argomentazioni motivazionali della sentenza gravata, in modo da consentire – come già anticipato e rilevato pure da un rilevante indirizzo dottrinale- di individuare con precisione la violazione della legge del provvedimento denunciata, chiarendosi, a tal proposito, che può dirsi raggiunto lo scopo quando l’argomentazione dedotta, se fondata, priverebbe di base logica la motivazione della parte di sentenza impugnata.
Una volta chiariti i termini del dibattito relativo all’enucleazione del concetto di “motivi specifici”, è giunto il momento di soffermare l’attenzione sull’individuazione delle conseguenze che derivano sul piano processuale – in difetto di un’espressa previsione normativa al riguardo - dal mancato rispetto dell’assolvimento dell’inerente onere incombente in capo all’appellante.
Anche a questo riguardo gli orientamenti profilatisi in dottrina sono risultati piuttosto contrastanti, risentendo inevitabilmente della corrispondente concezione sulla natura e l’oggetto dell’appello e contrapponendosi, in gran parte, agli indirizzi giurisprudenziali che hanno, a loro volta, conosciuto, in relazione a questo precipuo aspetto, un’evoluzione che, prendendo origine da una posizione di un certo tipo – culminata nella sentenza delle sezioni unite n. 4991 del 1987, propugnante la tesi della nullità dell’atto di appello – è pervenuta, con la successiva sentenza delle stesse sezioni unite n. 16/SU del 2000, in virtù di un ragionato e motivato revirement, a sostenere la configurabilità, nella prospettata ipotesi processuale patologica, di un caso di inammissibilità dell’appello, insuscettibile, perciò, di ogni forma di sanatoria.
Occorre ricordare che, inizialmente, la giurisprudenza, sul tema dei motivi specifici dell’appello, era attestata su posizioni tendenzialmente liberali, inquadrando l’appello come un mezzo di impugnazione rivolto ad ottenere non già il controllo della decisione di primo grado, bensì una nuova pronuncia sul diritto fatto valere con la domanda originaria, ragion per cui l’enunciazione delle censure sarebbe stata richiesta al solo fine di delimitare l’ambito di riesame richiesto al giudice superiore, con una conseguente “attenuazione dell’onere di specificazione dei motivi”, percepibile, soprattutto, nell’ipotesi dell’appellante che avesse manifestato comunque la volontà non equivoca di impugnare integralmente la sentenza di primo grado.
Solo in una successiva fase – che ha preso le mosse dalla richiamata sentenza delle sezioni unite n. 4991 del 6 giugno 1987 – si è andata affermando la diversa soluzione alla stregua della quale, ai fini della validità dell’atto di appello, si richiedeva non solo l’individuazione delle “statuizioni concretamente impugnate” e dei “limiti dell’impugnazione”, bensì pure l’esposizione delle ragioni, dirette a confutare le argomentazioni in fatto e in diritto che sorreggevano la decisione di primo grado, ancorché con la precisazione che il livello di specificità dei motivi di gravame andava commisurato a quello della motivazione della sentenza appellata.
In particolare, con la predetta pronuncia delle sezioni unite si era inteso precisare, in termini netti, che tra il fatto naturalisticamente inteso e le posizioni delle parti e del giudice di appello si frapponeva la sentenza di primo grado oggetto dell’impugnazione, la quale aveva accertato a valutato il fatto, fornendo dell’accertamento e della valutazione la motivazione. Pertanto, la sentenza di primo grado doveva considerarsi strutturata in una parte volitiva (la statuizione) e in una parte argomentativa (la motivazione), le quali andavano valutate congiuntamente, nel loro complesso, ponendosi in correlazione ciascuna statuizione decisoria con l’accertamento e la motivazione sulle quali si fondava; allo stesso modo, conseguentemente e specularmente, anche la citazione di appello si sarebbe dovuta comporre di una parte volitiva, la cui funzione era quella di individuare le parti della sentenza che si sarebbero intese sottoporre all’esame del giudice di seconde cure, ed una parte logico-argomentativa, che avrebbe dovuto tendere, invece, ad illustrare le ragioni di fatto e di diritto poste a sostegno dell’impugnazione.
In definitiva, con la sentenza in questione, le sezioni unite – in un primo significativo passaggio del percorso evolutivo che ha condotto la giurisprudenza verso gli assestamenti attuali – pervennero alla concezione di un’interpretazione maggiormente restrittiva, in virtù della quale i “motivi specifici” dell’atto di appello non assolvono soltanto ad una funzione semplicemente individuatrice delle parti della pronuncia di cui si lamenta l’ingiustizia, ma svolgono, altresì, un’ulteriore e più pregnante funzione di specificazione delle ragioni di fatto e di diritto che si collocano alla base dell’impugnazione, ovvero di individuazione degli errori in procedendo e in iudicando che si assumono commessi dal giudice di prima istanza.
Una volta ridisegnata la funzione dei motivi specifici, con la stessa sentenza n. 4991 del 1987 venne affrontato anche il problema – oggetto di esame nella presente sede – relativo all’identificazione della sanzione, nel silenzio dell’art. 342 cod. proc. civ., riconducibile all’atto di appello in cui i motivi del gravame non fossero stati specificati ovvero fossero stati esplicati in modo insufficiente. La Suprema Corte, nella sua massima espressione nomofilattica, dopo aver ripercorso i precedenti orientamenti che avevano oscillato tra la tesi della nullità e quella dell’inammissibilità, prese posizione a favore della prima soluzione esegetica, asserendo che “mentre l’art. 342 cod. proc. civ. nulla dice in proposito, dal richiamo all’art. 163 e, in particolare, alla disposizione di cui al n. 3 (oggetto del giudizio) consegue che la sanzione è quella della nullità e non dell’inammissibilità, che nessuna norma prevede. La precisazione non è meramente terminologica, dal momento che per la nullità, con la costituzione del convenuto appellato, è prevista la sanatoria con la salvezza dei diritti anteriormente quesiti”.
Malgrado l’intervento delle sezioni unite non mancarono, però, pronunce successive che non condividevano l’impostazione in termini di nullità e che, invece, optarono per la sanzione dell’inammissibilità dell’appello, considerando il requisito dei motivi come ulteriore ed autonomo, sul piano logico e giuridico, rispetto alle indicazioni prescritte per ogni atto di citazione dall’art. 163 del codice di rito.
Emergendo il nuovo contrasto sull’argomento, la questione venne rimessa nuovamente alle sezioni unite, che, con la menzionata sentenza n. 16/SU del 29 gennaio 2000, pur muovendosi nel solco delineato dalla pronuncia n. 4991 del 1987 con riguardo alle premesse sul tema in oggetto - in relazione alla qualificazione dell’appello non come novum iudicium ma come revisio prioris instantiae, onde la cognizione del giudice di appello si deve considerare circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante, attraverso l’enunciazione di specifici motivi da correlare alla motivazione della sentenza impugnata -, giunge alla diversa soluzione dell’inammissibilità.
In particolare, con la sentenza in questione si sostiene che l’inammissibilità non è la sanzione per un vizio dell’atto diverso dalla nullità, ma la conseguenza di particolari nullità dell’appello e del ricorso per cassazione, e non è comminata in ipotesi tassative ma si verifica ogniqualvolta – essendo l’atto inidoneo al raggiungimento del suo scopo (che, nel caso, dell’appello, consiste nell’evitare il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado) – non operi un meccanismo di sanatoria; pertanto, essendo inapplicabile all’atto di citazione di appello l’art. 164, secondo comma, cod. proc. civ. (riferibile, nel caso sottoposto alle sezioni unite, al testo originario) per incompatibilità (in quanto solo l’atto conforme alle prescrizioni di cui all’art. 342 cod. proc. civ. è idoneo ad impedire la decadenza dall’impugnazione e, quindi, il passaggio in giudicato della sentenza), l’inosservanza dell’onere di specificazione dei motivi, imposto dallo stesso art. 342, integra una nullità che determina l’inammissibilità dell’impugnazione, con conseguente effetto del passaggio in giudicato della sentenza impugnata, senza possibilità di sanatoria dell’atto a seguito di costituzione dell’appellato – in qualunque momento essa avvenga – e senza che tale effetto possa essere rimosso dalla specificazione dei motivi avvenuta in corso di causa.
In tali termini, dunque, la Corte di legittimità, nel riportato arresto a sezioni unite, ha ritenuto che la sanzione dell’inammissibilità sia applicabile ogniqualvolta l’atto di appello non consenta al giudice di seconda istanza di accedere all’esame del merito della controversia: tale conseguenza deriva, quindi, per l’atto di appello o con riferimento al momento in cui è compiuto (quando interviene oltre i termini fissati dalla legge), o perché contrario ad atti e comportamenti precedenti o contemporanei alla proposizione dell’atto stesso (nel caso di acquiescenza) oppure, infine, per la sua difformità rispetto al modello legale che lo prevede (come nell’ipotesi di omessa o insufficiente specificità dei motivi). Il vizio, nel caso de quo, riguarda, invero, sostanzialmente la carenza di un elemento che è specifico e caratteristico non di qualsiasi atto introduttivo di giudizio ma dell’atto introduttivo dell’appello, il cui scopo preciso è quello di circoscrivere l’ambito della cognizione del giudicante entro confini ben determinati, determinandosi, in caso di violazione del rispetto di tale requisito, l’incontrovertibilità della sentenza (inammissibilmente) impugnata.
Dopo questa pronuncia delle sezioni unite la giurisprudenza si è successivamente assestata sulla posizione da essa scaturente, riconfermandosi – a più riprese - che i motivi di appello, a norma dell’art. 342 cod. proc. civ., devono essere specifici e, cioè, rivolgere alla sentenza impugnata censure puntuali e precise, al cui esame resta delimitato l’ambito della cognizione in sede di gravame, senza possibilità di ampliamenti successivi, la cui inammissibilità può e deve essere rilevata d’ufficio (anche in sede di legittimità, con conseguente declaratoria d’ufficio del giudicato interno formatosi sulla pronuncia di primo grado), senza che rilevi la circostanza di un’eventuale accettazione del contraddittorio da parte dell’appellato sia in ordine ad un atto di appello sprovvisto ab origine di sufficienti motivi specifici che con riguardo alle eventuali integrazioni introdotte successivamente. Recentemente è stato puntualizzato che la specificità dei motivi richiesta dagli artt. 342 e 434 cod. proc. civ. è verificabile dal giudice di legittimità direttamente, riconducendo la censura nell’ambito degli errores in procedendo, attraverso l’interpretazione autonoma dell’atto di appello, fermo restando che il giudizio di appello ha natura di revisio prioris instantiae e non di novum iudicium, e che la cognizione del giudice rimane circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante attraverso l’enunciazione di specifici motivi, sicché l’inammissibilità del gravame derivante da tale violazione non è sanabile per effetto dell’attività difensiva spiegata nel corso del giudizio.
I prevalenti orientamenti dottrinali si sono schierati in senso critico nei confronti della sentenza n. 16/SU del 2000, soprattutto con riferimento all’individuazione del tipo di conseguenza invalidante discendente dall’atto di appello carente del requisito della specificità dei motivi e, ancor di più, della ritenuta impossibilità dell’operatività di alcun meccanismo di sanatoria.
Il settore più tradizionale della dottrina - che attribuisce alla proposizione dell’appello effetto devolutivo pieno – ha rilevato che, ricorrendo la predetta eventualità, dovrebbe parlarsi di mera irregolarità sanabile senza limiti di tempo, non trascurandosi l’importante dato secondo cui l’art. 342 cod. proc. civ. non commina alcuna sanzione esplicita per la citazione in appello carente o insufficiente nell’indicazione dei motivi, onde non dovrebbe essere lecito ravvisare l’applicabilità di una sanzione più grave (riconducibile all’area dell’invalidità) nell’assenza di una previsione specifica in tal senso.
Altro, più consistente, filone dottrinale si è schierato per l’affermazione dell’applicabilità della nullità. In special modo, da parte dei fautori di questo indirizzo, viene sostenuto che, non essendo la sanzione dell’inammissibilità prevista dalla legge, il vizio conseguente all’omissione dei motivi debba essere considerato non come impeditivo dell’introduzione del giudizio, ma semmai impeditivo della pronuncia – e, perciò, riconducibile, alla nullità – nei soli casi in cui avendo riguardo anche alla genericità delle conclusioni, l’atto risulti inidoneo al conseguimento dello scopo, potendo, nelle altre ipotesi, il vizio essere ricollegato ad una semplice irregolarità, suscettibile di regolarizzazione ai sensi dell’art. 182, comma primo, del codice di rito. L’aspetto sul quale, tuttavia, questa dottrina si è dimostrata contraria all’indirizzo più recente della giurisprudenza – al di là della perplessità circa la qualificazione dell’inammissibilità come categoria della nullità - ha riguardato l’asserita insanabilità dell’invalidità dell’atto di appello affetto dal vizio in questione, poiché – una volta ricondotti gli effetti nell’alveo della nullità – dovrebbe risultare univocamente applicabile l’art. 164 cod. proc. civ., in relazione ai vizi dell’atto introduttivo concernenti l’editio actionis. Tale norma, nella sua versione originaria, stabiliva un meccanismo di sanatoria fondato sulla costituzione spontanea dell’appellato; nel testo attualmente vigente, invece, prevede che il giudice conceda all’attore un termine perentorio per rinnovare la citazione oppure, se il convenuto è costituito, un termine per integrare la domanda, ferme restando, però, le decadenze maturate e salvi i diritti quesiti anteriormente alla rinnovazione o all’integrazione. In ogni caso, la sanatoria opera con efficacia ex nunc. Pertanto, in virtù del generale richiamo operato dall’art. 359 cod. proc. civ. alla disciplina per il processo di cognizione di primo grado, all’atto di appello viziato da omessa o insufficiente indicazione dei motivi specifici sarebbe applicabile il cit. art. 164, commi quarto e quinto, ossia esso sarebbe da considerare allo stesso modo di una domanda giudiziale difettante degli elementi di fatto e di diritto che ne costituiscono le ragioni: ricorrendo tale eventualità, il giudice dovrebbe concedere all’appellante un termine perentorio per rinnovare la citazione o, qualora l’appellato si sia già costituito, per depositare memorie integrative, consentendogli di specificare, in tal modo, le censure proposte contro la pronuncia oggetto del gravame.
Altra più recente corrente scientifica – che pure può inscriversi essenzialmente in quest’ultimo orientamento – ha cercato di offrire un quadro sistematico ricostruttivo della disciplina dell’atto di appello carente dei motivi specifici, delineando le seguenti argomentazioni: l’atto, munito dei requisiti afferenti alla vocativo in ius e mancante della causa petendi dell’impugnazione, incardina il giudizio di appello, senza però interrompere il decorso del termine per il passaggio in giudicato della sentenza, giacché nessuna parte di questa risulta validamente impugnata. Il giudice dell’impugnazione, rilevato il vizio: a) ove in quel momento siano decorsi i termini per l’impugnazione e la parte non abbia provveduto nei termini a sanare la nullità attraverso l’integrazione o la rinnovazione spontanee, dichiara l’inammissibilità dell’impugnazione per avvenuto passaggio in giudicato della sentenza; b) ove in quel momento siano decorsi i termini e la parte abbia preventivamente provveduto a sanare il vizio spontaneamente, mediante l’integrazione o la rinnovazione, il vizio perde rilevanza e la nullità non può essere dichiarata; c) ove in quel momento non siano decorsi i termini e la parte non abbia provveduto a sanare il vizio di propria iniziativa, ordina la rinnovazione o l’integrazione dell’atto entro un termine perentorio ricompreso nel termine per impugnare previsto dalla legge; a questo punto possono verificarsi varie eventualità: aa) se la parte impugnante ottempera nei termini, il vizio è sanato e la nullità non può essere dichiarata; bb) se la parte non ottempera nei termini, il giudice dichiara l’inammissibilità dell’impugnazione per avvenuto passaggio in giudicato della sentenza o, comunque, se i termini non sono ancora decorsi, per assoluta inidoneità dell’atto – inidoneità non sanata e non più sanabile - a rappresentare esercizio del potere di impugnazione; in quest’ultima ipotesi, la dichiarazione di inammissibilità comporta la preclusione della riproponibilità dell’appello e la sentenza passa in giudicato al momento della scadenza del termine, salvo il caso di proposizione di altra impugnazione ordinaria.
Secondo questa opinione dottrinale, la riferita disciplina appare come quella più aderente al dato normativo e al nostro sistema giuridico delle invalidità degli atti, nonché come la regolamentazione maggiormente in grado di armonizzare, con più spiccata sensibilità, i contrapposti interessi delle parti coinvolte nel giudizio di appello.
Nel panorama dottrinale, infine, non potevano mancare le voci essenzialmente adesive alla ricostruzione operata dalle sezioni unite nella sentenza n. 16/SU del 2000, fondate sui presupposti della peculiarità del giudizio di appello, della particolare funzione demandata al requisito della specificità dei motivi, dell’inadattabilità al caso in questione dell’efficacia espansiva della disciplina del giudizio di primo grado ai sensi dell’art. 359 cod. proc. civ., della valorizzazione della conseguenza della formazione dell’incontrovertibilità del giudicato nel caso di atto introduttivo del giudizio di appello inidoneo ad instaurare il rapporto giuridico processuale ed a consentire di accedere all’esame del merito nei limiti del devoluto. Del resto chi ha perorato la tesi dell’inammissibilità ha evidenziato che nella Proposta di riforma parziale del processo civile (recepita nel disegno Vassalli, dal quale è derivata la legge di riforma n. 353 del 1990) era stato previsto proprio che l’enunciazione dei motivi dovesse essere prescritta “a pena di inammissibilità”.

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